Le strade erano di un giallo acceso per via del Gatorade- sembrava che i maratoneti se la fossero fatta addosso dopo avere assunto massicce dosi di vitamine. Qualche ritardatario arrancava e camminava. Mi sono domandato se avrei avuto il privilegio di scorgere il fanalino di coda della corsa:una vista più rara e difficile da stabilire con certezza di quella del vincitore”. Uno sguardo benevolo proprio dalla parte degli ultimi: “Ma credo proprio di averlo visto. Era un uomo con una bandana multicolore, la barba forse di una settimana, il numero della maratona messo per traverso, e mi pare di avergli visto fumare una sigaretta mentre procedeva lungo la via sbandando leggermente verso il marciapiede”. Una figura forse non proprio sportiva, ma certo più umana delle macchine e dei Suv contro i quali si scaglia l’ardore civico di Byrne, che ha scritto un libro sulla sostenibilità della metropoli, dove l’esercizio fisico salva proprio gli spazi urbani. L’ameriicano Phillip Lopate ne “I segrati di Manhattan” (Il Saggiatore, 2008) invece lancia uno sguardo caustico nei confronti del tempo libero dei newyorchesi: “Sto passeggiando nel nuovo Hudson River Park. Qualcuno mi passa accanto di corsa. Devo dire che non c’è niente di più spiacevole di quello spostamento d’aria dietro le orecchie prodotto da qualcuno che ti supera in bicicletta o correndo senza nessun preavviso. Ti ritrovi a sobbalzare e subito dopo ti senti un idiota per esserti spaventato…Pedoni e ciclisti sono nemici di classe”. Lopate è dalla parte del camminare: “L’ Hudson River Park finora si è dimostrato una manna per ciclisti e amanti del jogging e proprietari di cani. Per quei corridori mattutini, pieni di ferormoni, l’energia è fonte inesauribile di piacere.” Secondo lo scrittore americano il podismo è stato rovinato dalla globalizzazione: “Il fatto è che per la strada si possono vedere i newyorchesi nella loro veste più viva, più indaffarata, ein una rappresentazione di sé teatrale o quanto meno enfatica, mentre si destreggiano fra una situazione e l’altra, per esempio fra il lavoro e una visita medica…”. Si osserva meglio New York per le streets, anzi che nel parco: “Nel loro tempo libero, invece, potrebbero essere gli abitanti di un posto qualunque come Spokane, Sydney. In una domenica al parco le facce placide e soddisfatte sono vuote di ogni contenuto, a parte lo sforzo di correre un altro mezzo chilometro, di bruciare un altro centimetro di grasso. Anche il loro abbigliamento (pantaloncini, maglietta,tuta, scarpe da ginnastica) è privo di caratteristiche locali e regionali: è l’uniforme di tutti coloro che sono stati depredati del corpo, consentendo che barccia e gambe si trasformassero in macchine per la felicità. Le forze conformiste della globalizzazione si sono insinuate in Manhattan grazie al tempo libero”. Originale, no?
In
una metropoli come New York, che sembra l’antitesi della vita sportiva con le
strade intasate di traffico, con la giungla di grattacieli che limita anche la
vista dei poveri umani, si corre eccome. Ma New York è anche tutto e il contrario
di tutto, dando i natali a scrittori e artisti che, recentemente, hanno
espresso nelle loro opere anche la fisicità di una metropoli fatta di sangue
pulsante, di voglia di muoversi. David Byrne, musicista fondatore dei mitici
Talking Heads, un gruppo rock americano che rivoluzionò il modo di fare musica
alla fine degli anni settanta, descrive bene questo in alcune pagine del suo
libro: “Diari della bicicletta”. Da qualche anno questo “guru” della musica e
delle arti (ha anche lavorato con Bernardo Bertolucci per la realizzazione de
“L’Ultimo Imperatore” vincendo l’Oscar per la migliore colonna sonora) si è
dato al ciclismo su strada. Questo sport per lui è diventato un modo per
osservare la realtà e per scoprire angoli nuovi della Grande Mela. Byrne fa un
parallelo fra podismo e ciclismo in occasione del Five Boro Bike Tour, grande
raduno cicloturistico: “La gente del Queens, di Brooklyn e di Staten Island
piazza dei cartelli in giardino e applaude gli sciami di ciclisti che
sfrecciano davanti a loro, proprio come fanno con i partecipanti della
maratona, solo che in questo tour nessuno gareggia . Nessuno bada a chi arriva
primo”. Insomma, Byrne, considerato agli inizi della carriera come un “nerd”
(in pratica, uno studente secchione e un po’ “sfigato”), sposa la causa della
non competitività. “L’altro giorno volevo andare in bici a Long Island City per
vedere una mostra d’arte, ma era il giorno della maratona di New York e le
piste ciclabili sul ponte di Queensboro erano chiuse (a quanto pare erano state
riservate ai portatori di handicap). Così sono salito con la bici sul
tram/funivia per Roosevelt Island per poi dirigermi verso il manicomio
abbandonato all’estremità meridionale dell’isola posta in mezzo all’East River
. In giro non c’era anima viva. Inquietante”. Inquietante, strano, quasi uno
scenario da dopobomba che si sposerebbe bene con “Psycho killer”, uno dei
motivi più trascinanti dei”Talking”. Ma ancora più strano lo scenario del
postmaratona: “Mi sono fermato per un boccone in un bel bar di Hunters Point
Avenue, osservando le squadre incaricate
di far pulizia dopo la maratona, che raccoglievano cumuli di bicchieri e
fazzoletti di carta che erano stati offerti ai corridori. Le strade erano di un
giallo acceso per via del Gatorade- sembrava che i maratoneti se la fossero
fatta addosso dopo avere assunto massicce dosi di vitamine. Qualche
ritardatario arrancava e camminava. Mi sono domandato se avrei avuto il
privilegio di scorgere il fanalino di coda della corsa:una vista più rara e
difficile da stabilire con certezza di quella del vincitore”. Uno sguardo
benevolo proprio dalla parte degli